“Lo stress è una condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla percezione individuale di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative” –Accordo quadro europeo–

È ormai universalmente accettata la definizione di stress come “sindrome di adattamento relativamente aspecifica alle sollecitazioni (dette anche stressors o stimoli) dell’ambiente esterno e/o interno”. Vale a dire un meccanismo del tutto fisiologico (eustress) che ci consente di rispondere alle richieste della vita. Senza stress, citando nuovamente Hans Selye, c’è la morte. Tuttavia, in alcune condizioni, la risposta di stress può divenire disfunzionale, ad esempio in caso di inadeguata intensità degli stimoli (sovra o sottostimolazione), per l’eccessiva durata degli stessi e/o per caratteristiche di personalità del soggetto o del contesto in cui egli è inserito.

La sindrome da stress negativo (distress) è caratterizzata da disturbi che coinvolgono vari livelli: cognitivo (perdita di concentrazione, difficoltà ad assumere decisioni, persistenti pensieri negativi, diminuita abilità dei managers, ecc.), emozionale (perdita di entusiasmo, irritabilità, ansia, depressione, ecc.), fisico (palpitazioni, mal di schiena, mal di testa, disturbi gastrici, ecc.), comportamentale (decremento della performance, disturbi dell’alimentazione, aumento di errori e infortuni, abuso di alcool e tabacco, ecc.).

Nell’ambito degli studi sullo stress, nel corso degli anni ‘70, presso il Laboratory for Clinical Stress Research di Stoccolma, Lennart Levi ha messo a punto il modello dello stress cosiddetto psicosociale. Secondo Levi “le interazioni sociali ed i rapporti interpersonali possono rappresentare per le persone una fonte stressogena, in grado di produrre disturbi psicosomatici alla pari degli altri stimoli” (Levi, 1970 citato in Bernardi e Sprini, 2005). Pertanto anche le interazioni presenti in ambito lavorativo, se non gestite in maniera adeguata alle possibilità di compensazione delle persone esposte, possono recare danni alla salute ed al benessere personale, proprio come i più noti fattori di rischio quali rumore, carico di lavoro, ritmi, turni e così via.

Hans-Horst Konkolewsky, direttore dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha dichiarato: “Nell’UE, lo stress legato all’attività lavorativa è il secondo problema di salute più diffuso sul posto di lavoro, dopo il mal di schiena, e colpisce quasi un terzo dei lavoratori dell’UE con un costo annuale di almeno 20 miliardi di euro. Esistono però delle soluzioni. L’obiettivo è di aumentare la conoscenza delle dimensioni del problema e delle sue cause e, soprattutto, di indicarne le possibili soluzioni” (European Agency for Safety and Health at Work, 2002).

In Italia, secondo la European Foundation for the Improvement of Living and Working Condition, il valore si attesta al 27% poco al di sopra della media europea (dati 2005 su 27 paesi della Comunità Europea; Milkzarek, 2009). Nel corso degli ultimi trent’anni, nell’ambito dei vari governi ed in tutti i settori lavorativi, è aumentata progressivamente la consapevolezza che lo stress correlato al lavoro comporti conseguenze indesiderate per la salute degli individui e per quella delle organizzazioni di appartenenza.

Molti, come io stessa ho cercato di mostrare nel primo capitolo, sono i dati che affermano la significativa correlazione tra lo stress e le caratteristiche dell’organizzazione del lavoro (o meglio della sua inadeguatezza o insufficienza). I dati rivelano che il 28% dei lavoratori dell’UE riferisce disturbi correlati allo stress. Percentuale che equivale a circa 41 milioni di lavoratori europei colpiti ogni anno da stress legato all’attività lavorativa (European Foundation, 2001). Mentre fino a pochi anni fa le patologie da lavoro erano prevalentemente ad eziologia monofattoriale, per esposizione lavorativa abnorme a rischi prevalentemente fisici quali: polveri, fumi, gas e vapori, rumore; più recentemente risultano, invece, in aumento il disagio lavorativo e le patologie definite stress–correlate di tipo aspecifico e ad eziologia multifattoriale.


A questo nuovo scenario di riferimento consegue l’urgente necessità di orientare la ricerca delle scienze psicosociali allo studio delle cosiddette work-related diseases o “malattie lavoro–associate” a genesi multifattoriale che aumentano il ventaglio dei pericoli e dei rischi nel luogo di lavoro. Negli stati membri vengono applicate direttive europee mirate alla prevenzione dei rischi legati alla salute ed alla sicurezza sul posto di lavoro; in base a tali direttive, i datori di lavoro devono garantire che i lavoratori non siano danneggiati dal lavoro, né tanto meno dall’esposizione a rischi psicosociali e dallo stress da lavoro.

Cox e Griffiths (1995) definiscono i fattori di rischio psicosociali come “quegli aspetti di progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali, che potenzialmente possono causare danni psicologici, sociali o fisici ai lavoratori”. Essi sono stati identificati come una delle maggiori sfide per la salute e la sicurezza occupazionale e sono spesso correlati a problemi sul posto di lavoro, quali stress da lavoro, violenza nel posto di lavoro, molestie e mobbing.


La figura sotto riportata esplica il percorso rischio-danno prendendo in considerazione, nella relazione rischio-stress-salute, sia i rischi psicosociali che quelli fisici.

 

stress lavoro correlato

FIGURA 2: Il duplice percorso rischio-danno

 

La legislatura sul tema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro richiede che i datori di lavoro conducano regolarmente valutazioni del rischio al fine di identificare quei fattori che possono minacciare la salute fisica e psicologica dei dipendenti. La pratica per la valutazione dei rischi di tipo fisico, biologico e chimico è da tempo ben consolidata, supportata dall’oggettività del dato empirico e da strumenti di misurazione. Al contrario l’individuazione dei potenziali fattori di rischio psicosociali legati all’organizzazione del lavoro incontra, tutt’oggi, difficoltà, a causa dell’eccessiva soggettività del metro valutativo e della non facile identificazione e valutazione della precisa fonte del rischio che conduce al danno diretto sulla salute psico-fisica del lavoratore (Magnani M., Mancini G., 2008).


In letteratura i fattori di rischio psicosociali sono stati indagati sostanzialmente percorrendo tre direttrici. La prima, volta ad individuare e mettere a punto strumenti self report allo scopo di determinare la rilevanza di determinati fattori di stress sul lavoro. La seconda volta ad individuare strategie per la gestione e la prevenzione dello stress sul lavoro. E l’ultima orientata alla riabilitazione delle persone esposte, per un tempo prolungato, a questi fattori ed alla valutazione del tipo e dell’entità del danno subito.

Psicologo Bologna Tania Braga Psicologo Bologna Tania Braga